Gli occhi degli alberi di Andrea Sciffo

Gli occhi degli alberi di Andrea Sciffo

Teniamo tra le mani questo libro: è un oggetto di un certo peso, che ripaga l’impiego di carta e giustifica l’offerta di pasta cellulosa da parte di alberi (inconsapevoli? forse no…)

Il protagonista del racconto continuamente interrotto e riscritto su fogli/foglie, ma unitario come il ramo che si dirama in branche minori senza perdere identità, non sono tanto ”gli occhi degli alberi” secondo quanto afferma il titolo o la bella foto in copertina: è piuttosto l’immaginazione al femminile di un’autrice che si pone all’ombra della grande tradizione verdeggiante degli scrittori arborei. È in ottima compagnia: solo a guardare nel ‘900, trova compagni Herman Hesse, Jean Giono, Mario Rigoni Stern e quel J.R.R. Tolkien che va conosciuto a partire dal bel saggio di Vito Fascina Alberi e miti (WIP Edizioni, Bari, 2007).

Ma l’archetipo da cui la Gagliardo trae linfa per le sue prose piene di una clorofilla così necessaria oggi, in tempi di CO2, è il mito di Filemone e Bauci, i due anziani coniugi della Grecia arcaica visitati da Zeus ed Hermes nella loro capanna in mezzo agli alberi (e qui, rimando alla versione cantata da Ovidio nelle ”Metamorfosi” per suggerire una lettura profonda, sino alla immedesimazione). Perché dico questo? Perché mi pare che l’autrice abbia spostato le fondamenta del sistema di riferimento della letteratura con fortuna e con esiti felici, cioè senza far crollare l’edificio, cosa rara all’inizio di questo XXI secolo; e allora i suoi effetti surrealistici, le invenzioni-a-parole, i capovolgimenti sensoriali fanno un corpo vivente e contribuiscono a uscire (meglio che ”entrare”) nella nuova realtà della nuova poesia.

Un tentativo simile va effettuando anche Davide Sapienza, lo scrittore che dopo La valle di ognidove (CDA Vivalda,2007) ha esplorato le voci di un fiume ancestrale come il Danubio attraverso le percezioni dell’amico canoista Dario Agostini ne ha tratto E la strada era l’acqua (Galaad Edizioni,2010;pp.150 €12); non a caso, Sapienza avverte con questo libro della Gagliardo ”oltre alla percezione di una contiguità intellettuale, anche un senso di liberazione.

Mi spiego. Il volume è ricco di citazioni. E se all’inizio mi ero ripromesso di cercare le fonti ho quasi subito rinunciato: perché rovinare questa festa dell’immaginario? Davvero importa sapere se il filosofo greco Callifone è esistito? Dunque, il Callifone che avrebbe detto ”sorrido pensando a coloro che non vogliono perdersi dietro agli enigmi del cosmo perché preferiscono stare con i piedi per terra. Come se sotto la terra che è sotto i loro piedi non si spalancassero altrettanti enigmi” è il messaggio, non la citazione (eventualmente) colta”.

Ecco come si può cercare di traslocare il palazzo della letteratura senza incrinarne i muri e le pareti: credendo alle parole, semplicemente, e prendendolo in parola… Nelle prose di Sapienza sull’interruzione del pensiero in viaggio, nelle didascalie immaginose della Gagliardo si legge la riga del sentiero lungo cui ”in circa sessanta scritti e altrettante foto arriviamo a capire lo stato di sospensione indotto dalle creature che l’autrice sa evocare e il fotografo ritrarre: dall’inafferrabile filosofo del Mare del Nulla al Buco Bianco, dai Pilastri Viventi all’Erbavora e sino alla Pelagia urania, dove Chicca Gagliardo cita qualcuno che non è solo esistito, ma che perdura nel cosmo, nell’aria, e negli elementi naturali: un certo Giacomo Leopardi che un lontano 23 luglio disse, ”la speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione”.

E qui, forse, tra gli alberi ormai molto cresciuti sull’ermo colle di Recanati, avverrà il decollo verso il vero cielo della poesia (che verdeggia di speranza): quando infine diremo addio allo scrittore che nel lungo ”Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” riuscì a non ritrarre nemmeno un albero, né il verde d’un germoglio. Così non va. Oggi però abbiamo autori (Gagliardo, Sapienza assieme a un folto sottobosco che cresce) ai quali non sarà necessario invidiare il gregge di pecore per ”entrare” nell’arcano del mondo; e lontani svaniranno i doloranti versi leopardiani

”Oh greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!”

Leopardi compose questi versi il 9 aprile 1830: non poteva non sapere che ”il 15 marzo 1815, durante un passeggiata, il naturalista tedesco Johannes Ende scorse una piccola Pianta spirale che spuntava tra due pietre. Posato a terra il taccuino color avorio, iniziò a studiarla. La contemplò a lungo, per ore interminabili, fino a quando avvertì una presenza dietro le spalle. Girandosi, si accorse stupito che l’occhio di un albero lo stava osservando” (pag.134).

Non poteva non sentire. E Manzoni? Non iniziava proprio in quegli anni il suo periodo d’oro? E il vecchio Foscolo esule? Come non percepirono anche loro quegli arborei occhi addosso? Perché il loro silenzio non parla, a differenza dei grandi tronchi carichi di fogliame, fruscianti? Allora addio, vecchi maestri.

Tu non sai: ci sono betulle che di notte levano le loro radici, e tu non crederesti mai
che di notte gli alberi camminano o diventano sogni.
Pensa che in un albero c’è un violino d’amore.
Pensa che un albero canta e ride.
Pensa che un albero sta in un crepaccio e poi diventa vita.

Te l’ho già detto: i poeti non si redimono, vanno lasciati volare tra gli alberi come usignoli pronti a morire.
E benvenuta nuova poetessa: il brano qui sopra fu trascritto da Alda Merini, con gli occhi.

GLI OCCHI DEGLI ALBERI (Ponte alle Grazie, 2010; ) Testi di Chicca Gagliardo e Fotografie di Massimiliano Tappari

Fonte: Arianna Editrice

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